La poesia, un’arma temibile contro l’oppressione

Pablo Neruda, il Poeta e l’Uomo

di Flavia Mesiano

Pablo Neruda

Per ripercorrere l’itinerario poetico di Pablo Neruda mi sembra efficace il ritratto di un suo grande estimatore, Federico Garcia Lorca: “Blocchi sul punto di sprofondare, poemi sostenuti sull’abisso da un filo di ragnatela, sorriso con una leggera sfumatura di giaguaro, grande mano coperta di vello che gioca delicatamente con un fazzolettino ricamato”. In questo caleidoscopio di metafore è racchiuso l’enigma Neruda e la molteplicità della sua narrazione.

Egli amava paragonare la sua poesia ad “un organismo vivente, infantile quando ero ragazzo, giovanile quando ero giovane, sconsolata quando ho sofferto, combattiva quando sono dovuto intervenire nella lotta politica. Ho sempre scritto per una necessità interiore”. (1)

È questa la materia pregnante della sua poesia: Neruda è il cantore dell’amore, della passione, dell’eros, di tutto ciò che suscita un sentimento di connessione e felicità; ma è anche l’uomo impegnato sul piano politico e sociale, la voce dei poveri e degli emarginati, il vate della memoria, del dolore per il suo Paese, il Cile, e per l’umanità tutta.

La sua poesia si sostanzia di tutte le cose: natura, piante, cibo, animali, quotidiane gioie e tragedie, ma soprattutto amore verso l’esistenza e la libertà. Per Neruda la poesia è essenzialmente un atto di pace: “il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina”(2); da questa premessa scaturisce l’imperativo etico della militanza politica e civile del poeta, chiamato a denunciare e combattere gli oppressori, coloro che minano il dispiegarsi di una pacifica e civile convivenza.

Pertanto, lontano dalla turris eburnea di una dorata evasione, i suoi versi si tramutano nella più temibile arma contro l’oppressione. Nell’ultima lirica composta dopo il golpe di Pinochet, I satrapi, il poeta diventa la voce accorata, rabbiosa di chi vive sulla sua pelle la tragedia del popolo cileno e con essa il vuoto della sua vita e il suo epilogo.

Nella foto, Philippe Noiret e Anna Bonaiuto, (nella parte di Neruda e di Matide Urrutia, in una scena del film “Il Postino”)

Marchia gli usurpatori Nixon Frei, Pinochet come “iene voraci/ della nostra storia, roditori delle bandiere conquistate/ con tanto sangue e tanto fuoco (…..) satrapi mille volte venduti/ e traditori, eccitati/ dai lupi di New York/ macchine affamate di sofferenza/ macchiate dal sacrificio/ dei loro popoli martirizzati, mercanti prostitute/ del pane e dell’aria d’America/ fogne, boia, branco/ di cacicchi di lupanare, senza altra legge che la tortura/ e la fame frustrata del popolo”.

Questo legame inscindibile tra arte e vita si fonde in un interscambio di tematiche che Neruda ha saputo sublimare con acuta sensibilità e ricchezza di immagini nella sua vasta produzione poetica, tra le più autorevoli del Novecento, coronata dal conferimento del premio Nobel per la poesia, nel 1971.

Per quanto concerne il ritratto dell’uomo, emblematico é il titolo delle sue memorie “Confesso che ho vissuto”. Nel ripercorrere la sua biografia, lo inseguiamo nel suo instancabile aggirarsi nei più disparati paesi. Quasi a testimonianza di una missione da assolvere con rigore, affronta l’incarico di console in Birmania nel 1927, impegni diplomatici a Buenos Aires, è console a Madrid durante la guerra civile, in cui, come egli stesso affermò, matura la conversione all’ideologia comunista. Il suo impegno politico diviene più attivo nel suo paese dove viene eletto senatore nel 1945, durante la presidenza di Vileda; è costretto all’esilio nel 1948 per l’accusa di tradimento e affronta le tante peregrinazioni. Soggiorna anche in Italia e ispira ad Antonio Skarmeta il romanzo “Il postino di Neruda”, da cui è tratto l’omonimo film che ha riscosso tanto successo. Rientrato in Cile nel 1952, al termine della dittatura di Vileda, come esponente del partito comunista è candidato alla presidenza del Cile, nel 1970, ma appoggia la candidatura di Allende e collabora attivamente al programma di libertà ed autonomia del suo paese dai poteri forti e dall’egemonia politica ed economica statunitense.

Come egli riconobbe, in Cile “si stava costruendo, fra immense difficoltà, una società veramente giusta, elevata sulla base della nostra sovranità, del nostro orgoglio nazionale, dell’eroismo dei migliori abitanti del Cile. Dal nostro lato, dal lato della rivoluzione cilena, stavano la costituzione e la legge, la democrazia e la speranza.(3)
Il sogno di emancipazione e riscatto del continente latino-americano guida l’impegno eroico dell’esperienza di governo di Allende, falciata dalla ferocia dei poteri forti: la democrazia viene soffocata nel sangue dal colpo di stato di Pinochet, ma l’eroica resistenza di Allende e del popolo cileno rende immortale questa pagina della storia. L’11 settembre del 1973 finisce un sogno e il 23 settembre dello stesso anno anche uno dei più grandi poeti del Novecento chiude la sua parabola terrena, non soltanto a causa della malattia che lo aveva aggredito, ma forse per una strana iniezione fatta “a sua insaputa”, come Neruda aveva confidato in punto di morte al suo autista Araya. Pertanto, anche in virtù dei dubbi sollevati dalla sua morte, è bello ricordarlo con le sue stesse parole: “Ma perché chiedo silenzio/ non crediate che io muoia:/ mi accade tutto il contrario:/ accade che sto per vivere”.

  1. Intervista rilasciata a Rita Guibert, Minimum fax, 2000.
  2. Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto, Allende, Mondadori, 18-09-2013, Radio 3.
  3. Idem, Il potere della poesia