“Novecento” vs “La leggenda del pianista sull’Oceano
In apertura del romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco, si legge: “In omnibus requiem quaesivi, et nunquam inveni, nisi in angulo cum libro” (In ogni cosa ho cercato la pace, e mai l’ho trovata, se non in un angolo, con un libro).
La citazione è suggestiva, pienamente condivisibile per chi ama la lettura.
Ma, nella ormai consolidata “civiltà delle immagini”, il testo scritto, importante veicolo nella mente di chi legge, assume nuova linfa nella versione cinematografica.
Capita, appunto, quando il libro diventa un film.
In questo spazio, riflessioni su un libro che ha ispirato un film di successo.
Il libro è “Novecento” di Alessandro Baricco (Universale Economica Feltrinelli, 1994).
Scritto in forma di monologo teatrale per un attore, Eugenio Allegri, e un regista, Gabriele Vacis, è stato rappresentato al Festival di Asti 1994.
Il film è “La leggenda del pianista sull’Oceano”, di Giuseppe Tornatore, uscito nel 1998. Il testo di Baricco conta 62 pagine di parole lucide come perle; il film, suggestivo, lascia un po’ di amaro in bocca, alla fine, ma consente al raziocinio di cui dovrebbe essere dotato ogni essere umano, di comprendere fino in fondo i sentimenti dei propri simili.
La storia è raccontata, nella finzione letteraria, da un trombettista, Tim Tooney, imbarcatosi per motivi di lavoro su un piroscafo, il Virginian, dove i viaggiatori si distinguono (un po’ come accade nel viaggio della vita) in categorie separate: prima, seconda, terza classe.
In quest’ultima, viaggiano gli emigranti, sognando l’America: un desiderio di riscatto, di una svolta che possa migliorare le loro condizioni di vita.
“Ci stavamo più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi…
Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. […] Alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare… E la vedeva.
Allora si inchiodava lì, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava: l’America. ( op. citata, pag 11) Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce n’è uno.
E poi ancora: “Io e la tromba. Gennaio 1927. […]Suonavamo perché l’Oceano è grande, e fa paura… Suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era, e chi era. Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio. E suonavamo il ragtime, perché è la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede” (op. cit., pagine 13-14)
Dobbiamo imparare a leggere le metafore. Non sempre si possono spiegare i sentimenti, le mentalità, le interpretazioni più diverse della vita e del mondo. E anche la stessa esistenza umana è una nave sbattuta dall’Oceano. Ad un certo punto, si possono fare delle scelte, anche quella di “affondare”; però la gioia consiste nell’andare avanti con i propri convincimenti. Anche quando l’Oceano è tutto intorno e la terra è ormai un punto lontano”. (da “Talent-Scout n.13, ottobre 2007) |
Dentro il testo
- Uno spaccato di contesto storico del primo Novecento
- La divisione in classi sociali, come si configura anche a bordo del piroscafo Virginian
- L’origine del jazz, un genere musicale che avrebbe conquistato il mondo
- Il linguaggio apparentemente rozzo, ma ricco di colore,sintetico, sbrigativo, degli uomini di bordo
- Il fascino della musica
- La rivalità tra musicisti e il duello singolare che si sviluppa nel salone del Virginian
- La danza del pianoforte con l’Oceano, in un “torbido valzer”
- La commistione tra storia e leggenda
- L’evento della guerra, sullo sfondo
- L’originalità della vicenda narrata
- L’amarezza di alcune scelte di vita
- Il valore dell’amicizia.
- La “scoperta del mare”, nell’esperienza dell’irlandese Lynn Baster