Rapito dai giannizzeri, diventò un valoroso dignitario alla corte del sultano

Mehmed Pascia’ Sokoli e il suo ponte sulla ‘drina

di Rosadele Genovese (v. Talent-Scout n.16, pagg. 22, 23)

 

Mehmed Pascia’ Sokoli
Visegrad, Il ponte sulla Drina

“Una costruzione elegante dalle forme armoniose… poggia su undici arcate e si erge sulle acque per una lunghezza complessiva di 179 metri…
Questa meraviglia architettonica fu sempre, dal momento della sua costruzione, parte integrante della vita di Visegrad (Bosnia): orgoglioso ponte eretto tra due mondi e due religioni…
La letteratura ricorda che fino al secolo scorso il ponte si prestava quale triste vetrina delle teste mozzate ed impalate dei contadini serbi, mentre durante il conflitto bosniaco interetnico del 1992-1995 fu teatro delle esecuzioni di massa operate dai serbi contro i musulmani bosniaci”.

Wikipedia


“Lo narrano tutte le storie in tutte le lingue…”

“Quel giorno di novembre giunse alla riva sinistra del fiume una lunga teoria di cavalli carichi, e si fermò per trascorrervi la notte. L’aga dei giannizzeri, con la sua scorta armata, se ne tornava a Istanbul dopo aver raccolto tra i villaggi della Bosnia orientale un certo numero di bambini cristiani come “tributo di sangue…
I ragazzi selezionati erano stati fatti proseguire sui piccoli cavalli bosniaci, in lunga fila. Su ogni cavallo c’erano due canestri intrecciati, uno a ogni fianco, e in ogni canestro era stato posto un ragazzo con un piccolo pacco e una forma di focaccia, ultime cose portate dalla casa paterna… A una certa distanza dagli ultimi cavalli di quella inconsueta carovana avanzavano, sparpagliati e ansimanti, diversi genitori o parenti di quei ragazzi che venivano condotti via per sempre, destinati a essere circoncisi in una terra straniera, a essere turcizzati e trascorrere la vita nei reparti dei giannizzeri…Quel giorno di novembre, in una di quelle numerose ceste, se ne stava silenzioso, guardandosi intorno con gli occhi asciutti, un ragazzo di dieci anni proveniente da Sokolici alta. Nella sua mente si impresse la riva rocciosa, coperta di salici radi, il deforme traghettatore e il cadente mulino ad acqua, in cui dovettero pernottare prima che tutti attraversassero la torbida Drina… Come un malessere fisico in qualche parte del suo corpo… il ragazzo assorbì il ricordo di quel luogo in cui la strada si spezzava, dove le disperazioni e gli sconforti della miseria si addensavano per depositarsi sulle rocciose sponde del fiume… Quel che divenne poi il ragazzo della cesta lo narrano tutte le storie in tutte le lingue.

(da “Il Ponte sulla Drina” di Ivo Andric – Mondadori, Milano, pag 21)

 

I rapimenti dei bambini erano molto frequenti a quel tempo. Nei territori sottoposti al dominio dei turchi – confini fermi per secoli, e poi via via più circoscritti- scorazzavano i giannizzeri che non razziavano soltanto tutto ciò che poteva servire alla loro sopravvivenza, ma catturavano senza pietà i ragazzi, malcapitati sottratti con la forza alle loro madri o giovanissimi che si imbattevano nel loro cammino, per destinarli al mestiere della guerra.

La storia del “ponte sulla Drina” inizia proprio con un episodio simile: adagiato in una grossa cesta, un ragazzino di dieci anni, appena rapito, vedeva allontanarsi ai suoi occhi il paesaggio circostante e la terra nella quale non sarebbe mai più tornato. Ma i casi della vita sono imprevedibili: quel ragazzo che osservava “con occhi asciutti” il torbido verde della Drina, era destinato a sposare la figlia del sul-tano e sarebbe diventato il visir Mehmed Pascià Sokoli.

Egli fu il primo che vide, sotto le palpebre chiuse, la solida e snella sagoma del grande ponte di pietra che sarebbe sorto in quel luogo“. Proprio lui, avrebbe portato “sempre la stessa striscia nera che passava attraverso il petto e lo trafiggeva con quel particolare dolore, ben noto fin dal tempo dell’infanzia, nettamente diverso da tutte le pene e i dolori aggiunti poi dalla vita”.
Proprio lui sarebbe stato l’artefice di un ponte colossale e maestoso di pietra bianca, solido, fermo a indicare che la vita dei mortali è breve, ma quella delle grandi opere può abbracciare molti secoli.


Musulmani, ebrei, cristiani

VIVERE INSIEME A VISEGRAD

Ivo Andric

“Ogni volta che si incontravano a Mejdan o ad Okoliste, si salutavano e chiedevano l’uno dell’altro notizie come in nessun posto fanno un pope ed un imano”. (Il Ponte sulla Drina, pag.168)
Ebrei, turchi, cristiani ortodossi vivevano a Visegrad nel rispetto reciproco delle loro diverse confessioni religiose: la cittadina si trova al confine tra la Bosnia e la Serbia e la sua storia, narrata nella successione lenta e pacata degli avvenimenti dalla penna di Ivo Andric, ha dello straordinario. Non certo per l’eccezionalità dei luoghi e degli eventi di guerra e di pace, che possono risultare comuni a molti territori, ma per il modo in cui genti diverse per fede, mentalità, per l’interpretazione del senso della vita, siano riuscite per secoli a convivere fianco a fianco senza che la loro diversità sfociasse in conflitti insanabili.

Una città simbolo della solidarietà tra gli uomini, soprattutto in occasione di catastrofi naturali come alluvioni e carestie. La storia semplice e appassionante di queste popolazioni si sviluppa in un arco di tempo che va dal sedicesimo al ventesimo secolo; ed è straordinario che i protagonisti non siano soltanto gli uomini con le loro storie di comuni mortali, ricchi della loro forza e non immuni dalla debolezza: al di sopra degli eventi si erge un protagonista di pietra bianca e dura, il ponte sulla Drina.

Il tempo necessario per costruirlo, le leggende nate intorno alla sua costruzione, la crudeltà dei turchi, le teste mozzate di chi ne osteggiava la realizzazione, le vittime impalate, la fama di Mehmed Pascià: tutta la prima parte della “storia” riguarda la vita a Visegrad, nel contesto di questa grandiosa opera. Ma mentre scorre la Drina, scorre anche il tempo. Crescono le nuove generazioni, le vecchie scompaiono, le vicende umane mutano.

Dal Cinquecento al Novecento, fino all’attentato di Sarajevo, Ivo Andric narra la storia della sua terra, fa scorrere gli avvenimenti così come scorre il torbido verde della Drina e non ricorre a metafore audaci per rappresentare la vita che fluisce come l’acqua di un fiume. Ma guarda al ponte come a qualcosa di grandioso, di immutabile, di eterno.
Il romanzo si conclude con il bombardamento degli austriaci ai danni del ponte. La settima arcata crolla. Il ponte ha resistito alla distruzione del tempo “divoratore” ma non ai colpi del cannone che distrugge il negozio di Alihodza, il vecchio imano. Egli non riuscirà a fuggire verso la sua abitazione, non farà in tempo a trovarvi riparo La salita è dura, Alihodza ferito non riuscirà a sopravvivere. Invece la ferita nell’arcata del ponte, con il tempo, sarà rimarginata.

Hanno cominciato a intaccare le cose più solide e durevoli, hanno cominciato a prendere ciò che è di Dio. Persino il ponte del visir comincia a sfilarsi come una collana”, pensa Alihodza prima di accasciarsi. Ma il ponte continuerà ad ergersi nel tempo, e si può ammirare anche oggi, bianco e imponente sulla Drina.

“Appartengano a questa o a quella fede religiosa, a questa o a quell’etnia, a questo o a quel ceto sociale, comunque ad essi il narratore guarda con atteggiamento equanime, manifestando rispetto per il modo in cui ciascuno di essi affronta, come ogni uomo, le sue pene o, come ogni uomo, coltiva le sue passioni”

(Dalla Prefazione a “Il Ponte sulla Drina” di Ivo Andric, Oscar Mondadori, Milano, 1995)