Il Buon Compagno

Il Buon Compagno
di Guido Gozzano

Non fu l’amore, no. Furono i sensi
curiosi di noi, nati pel culto
del sogno… E l’atto rapido, inconsulto
ci parve fonte di misteri immensi.

Ma poi che nel tuo bacio ultimo spensi
l’ultimo bacio e l’ultimo sussulto,
non udii che quell’arido singulto
di te, perduta nei capelli densi.

 E fu vano accostare i nostri cuori
già riarsi dal sogno e dal pensiero;
amor non lega troppo eguali tempre.

 Scenda l’oblio immuni da languori,
si prosegua più forti pel sentiero,
buoni compagni ed alleati: sempre.

 

Un sonetto, ben costruito, che appare come un alibi.

Composto tra il 1908 e il 1909, fu dedicato ad Amalia Guglielminetti, definita da Gozzano “il buon compagno”. Non esiste nulla di più spiacevole, per una donna innamorata, che essere considerata “un compagno”. Crudo nella sua sincerità il testo- scaturito dall’atteggiamento buonista – e in qualche misura indifferente del poeta, (la realtà gli scivolava addosso), incurante della sensibilità femminile,– non fece che aumentare notevolmente l’amarezza, la delusione, il sentimento di sconfitta della donna, che avrebbe voluto costruire un rapporto solido e definitivo, di amore, e non certo di amicizia.


I toni e i colori del crepuscolo

Intanto, però, Gozzano (quello che fingo d’essere e non sono) allontanatosi dall’intellettuale gemebonda che lo aveva amato, si lasciava sfuggire la concreta adesione alla vita. “Il suo atteggiamento consapevolmente ironico, si distaccava definitivamente dalle prime influenze dannunziane. (Guglielmino): il tono oratorio e altisonante del poeta abruzzese poteva riuscire a entusiasmare, ad esaltare gli stati d’animo delle sfere sociali acculturate, forse irrequiete e inclini alla violenza, mentre la lettura della poesia di Gozzano, provinciale e dimessa, muove tuttora sensazioni e sentimenti che emozionano.

Definita “poesia crepuscolare” lascia intravedere colori attenuati, scenari e ambienti inediti. Il salotto di nonna Speranza, le cose di pessimo gusto, la villa di Agliè, la signorina Felicita, entrano nell’immaginario collettivo come il contraltare della retorica dannunziana, che mette in primo piano, nella vita, donne belle e fatali.

Per “La signorina Felicita”, descritta dal poeta con adesione ma anche con distacco, versi spietatamente sinceri: “Sei quasi brutta, priva di lusinga // nelle tue vesti quasi campagnole/ …ma la tua faccia buona e casalinga,/i bei capelli di color di sole//attorti in minutissime trecciole/ ti fanno un tipo di beltà fiamminga…”

Quante donne, oggi, vorrebbero essere descritte così?