2) Il denaro, “l’acqua in un setaccio”
“Tu sei esperta in ricatti più o meno mal dissimulati, ma ignori la pietà. Non ti voglio più vedere… Sono tanto risoluto che tu troverai sempre in me la ripulsa sempre violenta e pronta […] tu non sei avida se non di denaro. Ne avesti sempre in abbondanza da me illuso… Ora sono in angustie… Non ho obblighi di sorta verso chi si conduce così crudamente. Ti giuro che non ti rivedrò… Non c’è sangue mio nelle tue vene…” ( In “Più che l’amore”, op. cit., pag 291).

Queste frasi – ed altre ancora più forti – sono contenute in una lettera inviata da Gabriele D’Annunzio alla figlia Renata, avuta dall’incontro passionale con una donna di rango, ma intellettualmente e moralmente deprecabile. Per non cadere nel gossip, è bene non aggiungere altro, se non che nelle mani della giovane il denaro scorreva come “acqua in un setaccio”. Non si può affermare che proprio lui, D’Annunzio, non avesse lo stesso difetto: la sua mania di grandezza si manifestava con il desiderio sfrenato di spese folli, (di conseguenza, il bisogno continuo di finanziamenti) con atteggiamenti esibizionistici, nella ricerca di un tipo di vita “inimitabile”.
L’appellativo “immaginifico” gli stava a pennello, non solo nell’ispirazione letteraria, ma nell’intero contesto dalla sua vita. Amori, gesti eclatanti, l’ambizione di primeggiare sulla scena del mondo, di compiere imprese rischiose. Nella biografia del poeta, molte sono le azioni audaci: la beffa di Buccari, il volo su Vienna, l’impresa di Fiume. Solo nella fase “notturna”, dopo l’incidente aereo che gli causò la perdita dell’occhio destro, il poeta si ripiegò su se stesso, senza tuttavia abbandonare il comportamento che gli era congeniale. Pur riconoscendo in D’Annunzio una notevole dimensione artistica, per il lettore di oggi, il lettore dei romanzi, delle tragedie, il poeta risulta un esibizionista, impregnato di teatralità.
D’Annunzio scivola spesso in un’accesa retorica, in un linguaggio forbito, e comunque gli si deve riconoscere una dimensione intellettuale di tutto rispetto, nel contesto di una società pronta ad osannare e ad applaudire, mentre le fasce sociali più umili rimanevano totalmente in disparte.
Nell’osservare la complessa personalità di D’Annunzio, non si possono disconoscere i lati oscuri della sua esistenza: esibizionismo, mania di grandezza, incapacità di concretezza. Grande creativo, il poeta viveva nel mondo reale con atteggiamenti superomistici (siamo nell’epoca del Decadentismo, del Simbolismo, dell’Art Nouveau) e, contemporaneamente, dell’avanzamento del “Quarto stato” e dei problemi connessi. Impregnato di esaltazione artistica, di riferimenti ai miti, alle vicende di un passato lontano, D’Annunzio non raggiunge i vertici di un intimismo che non gli è congeniale. L’autocompiacimento gli nuoce. Oggi, dell’intera sua opera, restano “eterne” solo alcune composizioni poetiche “La pioggia nel pineto”, “Consolazione”, ad esempio. Molta parte di tutto il resto è retorica.
Infine, anche il rapporto Duse-D’Annunzio è connesso ad atteggiamenti “retorici”. Il poeta aveva bisogno di un “Pigmalione” che lo sostenesse economicamente e andava in cerca di una dimensione di “eternità”. Si servì della sua creatività nei rapporti con un’attrice molto nota, di cinque anni più anziana di lui, che lo chiamava “figlietto” e che lo aiutò anche economicamente nell’impresa teatrale. Questa donna era la Duse, che lo finanziò, recitò per lui, lo amò. Il sodalizio si interrupe quando l’attrice subì un’umiliazione troppo grande, legata, come si è detto, alla rappresentazione de “La figlia di Iorio”. L’intesa vacillò, il sodalizio si interruppe.

Oggi vediamo entrambi, D’Annunzio e la Duse, offuscati da un lato oscuro. Lui, grande scialacquatore, nelle ombre dell’esibizionismo, della retorica, della megalomania, dalla discontinuità degli affetti.
Lei, la Duse, primadonna destinata ad incontri di amore-non amore, ad una solitudine orgogliosa, interrotta da rapporti intellettuali, sessuali ed epistolari, amareggiata delusa e minata dalla tisi. Eppure consapevole della sua notorietà conquistata nelle platee di tutto il mondo.
Che cosa resta oggi di lei? Non resta solo il nome, se ancora, vengono diffuse pubblicazioni poderose e intriganti (come quella di Annamaria Andreoli) che aprono scenari finora poco noti sulle problematiche esistenziali di una donna disinibita ma sola. Grande, per i suoi tempi, e forse, profondamente infelice.